Ogni sguardo può diventare una bella storia

Penelope - Dietro la tela

04.06.2013 23:02

 

Penelope - Dietro la tela

 

Il mio promesso sposo giunse al mio diciottesimo anno, nel cielo d'indaco di un'alba primaverile.

Ricordo l'attesa dietro il trono di mio padre, l'oro tenero della luce sulle colonne dell'atrio, la fragranza delle ceneri fredde nei tripodi spenti; ricordo la carezza calda di mia madre, il volto composto e mite del re, l'ansia e l'orgoglio di essere per la prima volta avvolta nelle vesti di una donna. Nella mia infanzia avevo appreso le arti delle spose, i segreti per custodire il focolare e accogliere gli ospiti: ma io ero anche la figlia del signore, e fino al giorno precedente avevo vagato tra i pini neri della costa, fasciata di tuniche grezze, bagnandomi nelle fonti scure dei monti, apprendendo i costumi e i miti e la tolleranza tra gli uomini che solcavano i nostri golfi. Quella mattina, invece, le ancelle mi avevano svegliato nelle ultime ore della notte, e mi avevano annunciato che il mio pretendente sarebbe presto arrivato e che io dovevo prepararmi. Nel bagliore delle lucerne, avevo unto il mio corpo di unguenti e avevo indossato il chitone che mia madre aveva tessuto, dell'azzurro cupo del mare d'estate; lei stessa aveva intrecciato i miei riccioli in una cascata di pesanti trecce ramate. Mi aveva cinto le braccia degli anelli di bronzo delle mie antenate, e posto sul capo un velo diafano come acqua che scorre. Guardandomi nella vasca lustrale dell'atrio, non avevo potuto trattenere un sussulto. Non ero bella, lo avevo sempre saputo: il mio naso era troppo diritto, il mio volto pallido e screziato di efelidi, la mia bocca, come mi ripeteva ridendo mio padre, più adatta alla diatriba e il giudizio che ai baci. Ma in quel momento, in piedi fra le ombre, abbigliata come le dee sbalzate sui bacili, sentii scorrere in me la forza che sale dalla terra e germina nei nostri ventri, e fui d'improvviso consapevole del fatto che presto sarei stata io la compagna di un principe, la signora di un palazzo, la madre di un popolo. E ora ero lì, sui gradini della pedana corrosi dal salmastro, ad attendere l'arrivo di Laerte, re d'Itaca, e di suo figlio Odisseo.

Di lui non sapevo che voci disperse, vaghe e prodigiose come voli d'uccelli: sapevo che per avere la mia mano aveva vinto una gara di corsa con i giovani più audaci dei regni vicini, che la sua terra era un'isola fiera e scarna, che aveva mani svelte come ali e lingua dolce come il miele.

Ero inquieta, e l'attesa mi crepitava lungo la schiena, ma non ero intimorita: ho sempre avuto l'abitudine di guardare ai grandi eventi con gli occhi aperti e pronti, senza distoglierli e senza chiuderli. Lisciai una piega della veste, i bracciali che balenavano come serpenti di fuoco; mi ingiunsi di riconoscere la trama che si tesseva intorno a me, di scorgerne l'ordito, di non dimenticare l'intero disegno, sebbene vi fossero avviluppati tanto profondamente i fili della mia anima.

Fuori dalle porte della sala, l'aurora maturava sui campi e sui vigneti, schiudendosi sullo specchio remoto del mare, un melograno dalla scorza rosea. Poi entrò il messo, si inchinò, annunciò che gli ospiti erano giunti e chiedevano di essere ammessi alla presenza del re. Mio padre diede l'assenso, e io vidi per la prima volta il mio sposo.

Laerte era un uomo dalla pelle olivastra e gli occhi gentili, a cui l'età aveva conferito la compostezza invincibile delle statue di bronzo; riccioli grigi piovevano sotto il diadema d'oro, e un leone inarcato fermava sulla spalla l'ampio manto candido. Suo figlio non era imponente come gli impetuosi principi che mi avevano reclamato prima: il suo corpo era agile e bruno, più simile a quello di un cervo che di un toro; e anche il suo passo seguiva la cadenza cauta e svelta di una creatura dei boschi, o della notte. Indossava una corta tunica purpurea e un mantello di un verde profondo, cinto da un sole d'argento, e portava quelle vesti regali con grazia, ma senza orgoglio: d'improvviso capii che quell'uomo sarebbe appartenuto a se stesso con qualunque abito, qualunque maschera, qualunque fortuna.

Oltre i lembi del velo, osservai i due visitatori mentre si inchinavano.

-Io e mio figlio ti porgiamo i nostri saluti, Icaro. Che gli dei veglino sui tuoi discendenti e sulla gloria della tua stirpe, finchè l'aurora dalle dita rosee sorgerà sul mondo degli uomini.- dichiarò Laerte con voce chiara.

-Ti ringrazio, re Laerte, e ti offro l'accoglienza della mia casa. Avete compiuto un lungo viaggio, dunque chiedete pure ogni conforto: e mi auguro che questa terra si riveli per voi feconda e gradita.- rispose mio padre; per un attimo, le labbra del giovane si schiusero in un sorriso, e il mio volto minacciò di avvampare. -Ne siamo certi, Icaro- continuò il signore di Itaca, sollevandosi – la tua ospitalità non si rivelerà inferiore a quella di nessun altro mortale.-

-Le tue parole mi lusingano. Ma forza, sarete stanchi: le donne vi hanno già preparato bagni caldi, e panni tiepidi e unguenti fragranti, e i miei servi attendono l'ordine per scuoiare il montone e compiere le libagioni.-.

-Sì, re; ma prima permettici di onorare la tua sposa e la tua dolce figlia con questi doni-. Laerte rivolse un breve cenno al suo attendente, un alto uomo dai tratti solenni, e una coppia di guardie entrò dalla porta, posando ai piedi di mia madre grappoli di tesori: vasi d'oro brunito, brocche panciute, ampolle dai riflessi cangianti, teneri velli biondi e calici scuri, striati di spirali. Poi venne avanti Odisseo, e tese il braccio verso di me: -Per te, principessa.-.

Mi ero aspettata un manufatto prezioso, come quelli che mio padre aveva recato alla sua sposa: spezie rare, una tiara di gemme, una stoffa pregiata. Invece, ciò che mi porgeva il signore di Itaca era un sottile tralcio d'ulivo.

Perplessa, turbata, protesi le dita per raccoglierlo, e sfiorai la mano che me lo offriva.

-Questo è il ramo di un grande ulivo, dalle radici profonde e la corteccia grigia, che sorge accanto al nostro palazzo, nel cuore oscuro della foresta.- spiegò Odisseo -Per molti anni ha accolto i nostri giovani tra le sue fronde, per molti anni ha concesso la sua ombra ai nostri vecchi; per molto tempo ha nutrito i nostri corpi prima della battaglia, e ci ha indicato la via del ritorno dopo un viaggio. Se vorrai divenire la mia sposa, io ne ricaverò il nostro talamo: perché sia saldo e ricco e vivo come l'antico albero da cui sorge, e vi si mescolino le forze della terra nera e del cielo.-.

Per un attimo rimasi immobile, di fronte a lui; poi chinai il capo, e fu abbastanza.

 

Quel pomeriggio l'aria era mite, e la luce pioveva a fiotti tra le colonne del grande portico. Erano passati tre giorni dall'arrivo dei nostri ospiti, e la frenesia di scalpicci e ordini concitati cominciava finalmente a scemare: gli altari dei sacrifici erano di nuovo sgombri di sangue, i banchetti erano terminati, il re e Laerte conversavano sui sentieri, e un tralcio d'ulivo profumava l'ombra della mia stanza.

Avevo portato il telaio lì, nell'incavo più fresco e più luminoso della sala, come ogni volta che dovevo districare insieme alla lana anche le fibre del mio spirito. L'incontro con Odisseo aveva scosso la mia vita fin nelle sue giunture più remote; mi vibravano nel ventre come le increspature di una pietra gettata in un lago. Vedevo il ramo, vedevo le dita che me lo porgevano, e sentivo in me al tempo stesso destarsi lo stupore e schiudersi una speranza indefinita, ampia; fino a non sapere più se mi sentissi una sposa, o un guerriero di fronte ad un duello mortale, e agognato. Il legno scattava, la mia mano scorreva sulla tela: fuori la collina mormorava fruscii, canti, fragranze. Avevo allontanato le mie donne, mandandole a lavare i panni nel fiume, per poter pensare con più chiarezza; per questo rimasi sorpresa quando udii avvicinarsi alla porta un passo. Sollevai lo sguardo, e trovai Odisseo. Non aveva più le ricche vesti del primo giorno, ma la tunica era bianca e nitida.

-Salve, figlia di Icaro.- mi salutò, avanzando nel portico.

-Salve, mio signore.- Non usai il suo nome. Non ancora.

Sedette di fronte a me, sullo sgabello di legno della mia ancella; al di là dell'ordito scorgevo la barba scura come corvi, la fronte alta, le mani magre e forti, capaci. Respirai a fondo, fissando le chiazze di sole sul pavimento.

-Posso rimanere un poco qui?-.

Sollevai la testa:-Ma non vuoi partecipare alla caccia, insieme al re e a tuo padre? Potresti averne grande gloria.-.

Odisseo intrecciò le dita, ricambiando il mio sguardo. I suoi occhi balenavano di azzurro, mortale come l'oceano, lucente come una lama. Occhi troppo colmi di segreti per un giovane, troppo fitti di luci per un vecchio, occhi senza età. Occhi come quelli che mi guardavano dal bronzo ogni volta che mi districavo i capelli. -No, questa volta no. Ho già visto molte cacce e inseguito molti cinghiali, ma l'arte che tu pratichi mi è estranea. E ho sempre amato scoprire ciò che non conosco, piuttosto che solcare vie già note.-. Il volto si piegò, ricadendo nell'ombra dorata. -Sei un'abile tessitrice, mia signora – aggiunse.

-É vero.-.

Vidi di nuovo balenare il sorriso del nostro primo incontro.-Quasi nessuna delle fanciulle che ho conosciuto non tenterebbe di schermirsi neppure un poco di fronte ad un simile complimento.-

La mia voce era ferma, ma le mani mi tremavano sulla lana: -Non capisco perché il pudore o la virtù dovrebbero indurmi ad ignorare la verità. Molte donne, e alcuni uomini, amano avvolgersi in trame ricche e gloriose, e tuttavia false; ma io non voglio che altri veli ingannino la mia vista, per quanto splendidi.-

Lui sorrise ancora, il volto lontano e caldo. -Ne so qualcosa anch'io.-.

Io incurvai le labbra, continuando il mio lavoro, e per un poco la grande sala scivolò nel silenzio; ma era un silenzio dolce, fresco e buono come il profumo degli ulivi al mattino. Gli istanti si sgranavano quieti, e in una vertigine fu come se un dio mi mostrasse una catena scintillante di attimi simili, di pomeriggi trascorsi in casa, con lui che mi osservava senza domande e lo schiocco del telaio che cadenzava l'arco del sole.

Odisseo si protese in avanti, osservando la mia tela, il capo biondo e argenteo che si distendeva sotto il mio tocco:-Che cosa stai tessendo, principessa?-.

-Una coperta, per il mio corredo.-

-E chi è che disegni? Afrodite?-.

Scossi piano la testa. -Atena.-.

Qualcosa nel suo viso sussultò, rapido, come un dardo.- É una scelta inusuale, per una promessa sposa. Atena è la guerra, il potere, le armi.-.

-Ma è anche colei che insegna alle donne a combattere al fianco dei loro uomini.- ribattei, senza rabbia, senza esitazione.- Colei che rivela alle vergini il pudore fiero con cui incedere nel mondo, alle mogli la chiarezza del cuore con cui tessere i panni e le vite, alle madri il coraggio di bronzo con cui salutare la nave lontana del figlio, e comporne le membra sulle pire odorose.-.

-Atena è rinuncia.-

-Atena è saggezza.-.

-Ed è importante per te la saggezza, figlia di Icaro?-.

-Molti affermano che io sia saggia. E lo stesso dicono di te.-.

Subito, avevo compreso che il suo stupore non era autentico, che i suoi dubbi erano solo rituali, e che quel dialogo era in realtà una danza tra le nostre menti, un duello per saggiare la fermezza della mia lancia. Ma quella certezza non mi irritava, né mi turbava: perché mai avevo trovato qualcuno che potesse seguire con tanta destrezza i miei passi difficili, e perché dopo anni di abbandono la lama del mio spirito era di nuovo pronta e feroce nella mia mano.

Odisseo intrecciò di nuovo le mani.-Saggio? No, non credo di esserlo. E neppure tu, principessa. Non siamo saggi: siamo troppo giovani per evitare tutti i baratri, e rinunciare a tutti i miraggi. Ma forse potremo diventarlo. Tu cosa pensi, figlia di Icaro? Credi che abbiano ragione gli altri uomini?-.

Tesi la spola, abbassai il peso del telaio.-Io? Io non so cosa sia la saggezza. Mia madre dice che per una donna è mansuetudine, obbedienza, silenzio; e io non so se potrò mai essere tutto questo, o solo questo. Ma so che da quando ho memoria il mio sguardo penetra nei ricami del mondo più a fondo di quello degli altri, e vedo i legami intrecciati fra mortali che ancora non ne hanno coscienza.-.

-Sono gli dei a parlarti, principessa?-.

-No, non è lo stesso. Il mio pensiero non è la fiamma alta e bianca dei vati, che avvampa e si estingue in uno stesso respiro. Ma assomiglia, ecco, assomiglia all'opera delle mani su un telaio: è riconoscere i fili, scorgere gli incroci in cui si annodano, le sviste che devastano la trama; rivelare ogni punto e ogni intreccio, senza dimenticare l'intero disegno.-.

-Ti capisco, mia signora. Forse, se bene ho compreso, più di chiunque tu abbia mai incontrato.-..

Quando rialzai il viso gli occhi che trovai erano fermi ed equi, abbastanza immensi da colmarsi dell'amore più saldo, o del dolore più tremendo. Mi fermai, attonita: perché mai prima avevo parlato così chiaramente, né con altri né con me stessa; mai, prima di incontrare quel giovane scuro e inquieto, mi ero conosciuta così a fondo.

Odisseo si chinò verso di me.

-Vuoi essere la mia signora, figlia di Icaro? Per diventare saggi insieme? Per vedere insieme al di là della tela?- mi domandò lui, e io decisi che non sarei potuta essere di nessun altro uomo.

© 2013 Tutti i diritti riservati.

Crea un sito web gratisWebnode